Entretien de Jacques Lacan avec Emilia Granzotto pour le journal Panorama (en italien), à Rome, le 21 novembre 1974. Cet entretien a vraisemblablement eu lieu en français, a été traduit en italien, puis retraduit en français ici même.

 

Freud per sempre

intervista con Jacques Lacan

 

ll malessere della civiltà moderna. La fatica di vivere. La paura e il sesso. La parola come cura della nevrosi. L’angoscia degli scienziati. Il più paradossale psicoanalista vivente espone la sua dottrina e le ragioni della sua fedeltà al maestro.

Jacques Lacan, anni 73, parigino, psicoanalista. Apostolo di Sigmund Freud. Si definisce « freudiano puro », ha fondato a Parigi una scuola freudiana, da vent’anni ripropone instancabile il ritorno alle dottrine del maestro e la sua rilettura « in senso letterale ». Considerato eretico dalla psicoanalisi ufficiale che lo accusa di istrionismo (Emilio Servadio, presidente del Centro psicoanalitico di Roma, lo ha definito un « profeta da operetta ») e lo ha cacciato da tutti i suoi istituti e società.

Venerato al pari di una divinità dai suoi seguaci, per i quali è « un genio che comunica attraverso folgorazioni ». Politicamente a sinistra, vicino al gruppo marx-maoista che fa capo alla rivista Tel quel. Padre spirituale, è stato detto, di tutti i gauchistes francesi. Personaggio leggendario anche per il tono da oracolo in cui stende i suoi scritti, incomprensibili per chiunque non sia più che ferrato nei misteri della psicoanalisi, definita, in un suo saggio, « non altro che un artificio di cui Freud ha dato i costituenti ponendo che il loro insieme ingloba la nozione di tali costituenti ».

Le sue conferenze e le lezioni del mercoledi alla Facoltá di diritto della Sorbona sono seguite da moltitudini di ascoltatori, nonostante il linguaggio parlato altrettanto oscuro e fumoso di quello scritto. Lui stesso dice : « Io mi esprimo a mezzo parole, è notorio. E alla fine la gente non ha capito un acca».

Mescola parole dottissime (omeòstasi, anamorfosi, afanisi) con neologismi inventati lì per lì (il più celebre è parlantêtre, cioé parlantessere, ovvero l’essere parlante, ovvero l’uomo). Usa indifferentemente termini di gergo o addirittura eufemismi bonari al limite del ridicolo ; il fallo, protagonista e dio feroce della religione psicoanalitica, nel linguaggio di Lacan diventa semplicemente, e ironicamente, quéquette.

Piccolo, i capelli grigi tagliati a spazzola e sempre accuratamente ravviati, con una vaga rassomiglianza, di cui non si dispiace, a Jean Gabin questo mostro sacro dell’alta cultura francese si veste sempre come un dandy : camicia bianca in tessuto ricamato chiusa al collo da una striscetta abbottonata alla moda dei preti, giacche di velluto color prugna o albicocca con giochi d’intarsio tra lucido e opaco.

Nello studio di rue de Lille 5, con canapé Impero, dove Lacan riceve i clienti é passata tutta la Parigi che conta. Lacan si proclama strutturalista, è convinto che linguistica e psicoanalisi sono sorelle, e che gli analisti « dovrebbero avere una cultura sociologica, linguistica e metafisica ». I suoi saggi sono stati raccolti in un volume che si intitola Écrits, scritti, venduto a decine di migliaia di copie.

A Lacan, Panorama ha chiesto di parlare della psicoanalisi, dei suoi metodi, nella tecnica e nella dottrina.

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Domanda – Professor Lacan, si sente parlare sempre più spesso di crisi della psicoanalisi : Sigmund Freud, si dice, è un sorpassato, la società moderna ha scoperto che la sua dottrina non basta a comprendere l’uomo, né a interpretare a fondo il suo rapporto con l’ambiente, con il mondo…

 

Risposta – Storie. Primo : la crisi. Non c’è, non può esserci, la psicoanalisi non ha affatto raggiunto i suoi limiti, anzi. C’è ancora tanto da scoprire, nella pratica e nella dottrina. In psicoanalisi non esistono soluzioni immediate, ma solo la lunga, paziente ricerca dei perché.

Secondo : Freud. Come si fa a giudicarlo superato, se ancora non l’abbiamo interamente capito ? Di certo sappiamo che ha fatto conoscere cose nuovissime, mai neppure immaginate prima di lui. Dai problemi dell’Inconscio all’importanza della sessualità, dall’accesso al simbolico alla soggezione alle leggi del linguaggio.

La sua dottrina ha messo in questione la verità, una faccenda che riguarda tutti e ciascuno, personalmente. Altro che crisi. Ripeto : siamo lontani dalle mete di Freud. Anche perché il suo nome è servito a coprire molte cose, ci sono state deviazioni, gli epigoni non hanno sempre seguito fedelmente il modello, si è creata confusione.

Dopo la sua morte, nel ‘39, anche certi suoi allievi hanno preteso di fare psicoanalisi in modo diverso, riducendo il suo insegnamento a qualche formuletta banale : la tecnica come rito, la pratica ristretta al trattamento del comportamento, e, come meta, il riadattamento dell’individuo al suo ambiente sociale. Cioè la negazione di Freud, una psicoanalisi di comodo, da salotto.

Lui l’aveva previsto. Diceva : ci sono tre posizioni insostenibili, tre impegni impossibili, governare, educare, e fare psicoanalisi. Oggi, non importa chi ha responsabilità di governo, e tutti si pretendono educatori. Quanto agli psicoanalisti, ahimè, prosperano. Come i maghi e i guaritori. Proporre alla gente di aiutarla significa il successo assicurato e la clientela fuori dalla porta. La psicoanalisi è altro.

 

D. – Che cosa, esattamente ?

 

R. – Io la definisco un sintomo. Rivelatore del malessere della civiltà in cui viviamo. Certo non è una filosofia, io aborro la filosofia, è tanto tempo che non dice più niente di interessante. Non è nemmeno una fede, e non mi va di chiamarla scienza. Diciamo che è una pratica e che si occupa di quello che non va. Maledettamente difficile, perché pretende d’introdurre nella vita di tutti i giorni l’impossibile, l’immaginario. Finora ha ottenuto certi risultati, ma non ha ancora regole e si presta a ogni sorta di equivoco.

Non bisogna dimenticare che si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo sia rispetto alla medicina sia alla psicologia e affini. E anche molto giovane. Freud è morto da appena 35 anni. Il suo primo libro, L’interpretazione dei sogni, è stato pubblicato nel 1900. Con pochissimo successo. Se ne vendettero credo 300 copie in qualche anno. Aveva anche pochi allievi, presi per matti e neppure loro d’accordo sul modo di attuare e interpretare quello che avevano appreso.

 

D. – Che cosa non va, oggi, nell’uomo ?

 

R. – C’è questa grande fatica di vivere, come risultato della corsa al progresso. Dalla psicoanalisi ci si aspetta che scopra fin dove si può arrivare trascinando questa fatica, questo malessere della vita.

 

D. – Che cosa spinge la gente a farsi psicoanalizzare ?

R. – La paura. Quando gli accadono cose, persino volute da lui, che non capisce, l’uomo ha paura. Soffre di non capire, e a poco a poco entra in uno stato di panico. È la nevrosi. Nella nevrosi isterica il corpo si ammala dalla paura di essere malato, e senza in realtà esserlo. Nella nevrosi ossessiva la paura mette cose bizzarre dentro la testa, pensieri che non si possono controllare, fobie in cui forme e oggetti acquistano significati diversi e paurosi.

 

D. – Per esempio ?

R. – Succede al nevrotico di sentirsi forzato da un bisogno spaventoso di andare a verificare decine di volte se un rubinetto è veramente chiuso o se una data cosa sta nel dato posto, pur sapendo con certezza che il rubinetto è come dev’essere e la cosa sta dove deve stare. Non ci sono pillole che guariscono questo. Devi scoprire perché ti accade, e sapere che cosa significa.

 

D. – E la cura ?

 

R. – Il nevrotico è un malato che si cura con la parola, prima di tutto con la sua. Deve parlare, raccontare, spiegare se stesso. Freud la definisce « assunzione da parte del soggetto della propria storia, nella misura in cui è costituita dalla parola indirizzata a un altro ».

La psicoanalisi è il regno della parola, non ci sono altre medicine. Freud spiegava che l’Inconscio non tanto è profondo, quanto piuttosto inaccessibile all’approfondimento cosciente. E diceva che in questo Inconscio « c’è chi parla » : un soggetto nel soggetto, trascendente il soggetto. La parola è la grande forza della psicoanalisi.

 

D. – Parole di chi ? Del malato o dello psicoanalista ?

 

R. – In psicoanalisi i termini malato, medico, medicina non sono esatti, non si usano. Non sono giuste neppure le formule passive che si adoperano comunemente. Si dice « farsi psicoanalizzare ». È sbagliato. Chi fa il vero lavoro, nell’analisi, è quello che parla, il soggetto analizzante. Anche se lo fa nel modo suggerito dall’analista, che gli indica come procedere e lo aiuta con interventi. Gli viene fornita anche un’interpretazione, che a prima botta sembra dare un senso a quello che l’analizzante dice.

In realtà l’interpretazione è più sottile, tesa a cancellare il senso delle cose di cui il soggetto soffre. Il fine è quello di mostrargli, attraverso il suo stesso racconto, che il suo sintomo, la malattia, diciamo, non ha alcun rapporto con niente, è privo di qualsiasi senso. Quindi, anche se in apparenza è reale, non esiste.

Le vie per cui procede questa azione della parola richiedono molta pratica e infinita pazienza. La pazienza e la misura sono gli strumenti della psicoanalisi. La tecnica consiste nel saper misurare l’aiuto che si dà al soggetto analizzante. Perciò la psicoanalisi è difficile.

 

D. – Quando si parla di Jacques Lacan si associa inevitabilmente questo nome a una formula : « Ritorno a Freud ». Che cosa significa ?

 

R. – Esattamente quello che si dice. La psicoanalisi è Freud, se si vuole fare psicoanalisi bisogna rifarsi a Freud, ai suoi termini e alle sue definizioni. Lette e interpretate in senso letterale. Ho fondato a Parigi una scuola freudiana proprio per questo.

Sono vent’anni e più che vado spiegando il mio punto di vista : tornare a Freud significa semplicemente sgombrare il campo dalle deviazioni e dagli equivoci, dalle fenomenologie esistenziali, per esempio, come dal formalismo istituzionale delle società psicoanalitiche, riprendendo la lettura del suo insegnamento secondo i principi definiti e catalogati dal suo lavoro. Rileggere Freud vuol dire soltanto rileggere Freud. Chi non fa questo, in psicoanalisi, usa forme abusive.

 

D. – Freud, però, è difficile. E Lacan, si sente dire, lo rende addirittura incomprensibile. A Lacan si rimprovera di parlare, e soprattutto di scrivere, in modo che solo pochissimi addetti ai lavori possono sperare di capire.

 

R. – Lo so, sono ritenuto un oscuro che nasconde il suo pensiero dentro cortine fumogene. Mi domando perché. A proposito dell’analisi ripeto con Freud che è « il gioco intersoggettivo attraverso il quale la verità entra nel reale ». Non è chiaro ? Ma la psicoanalisi non è roba per ragazzi.

I miei libri sono definiti incomprensibili. Ma da chi ? Io non li ho scritti per tutti, perché siano capiti da tutti. Anzi, non mi sono minimamente preoccupato di compiacere qualche lettore. Avevo delle cose da dire, e le ho dette. Mi basta avere un pubblico che legge. Se non capisce, pazienza. Quanto al numero dei lettori ho avuto più fortuna di Freud. I miei libri sono persino troppo letti, ne sono meravigliato.

Sono anche convinto che fra dieci anni al massimo chi mi leggerà mi troverà addirittura trasparente, come un bel bicchiere di birra. Forse allora si dirà : questo Lacan, che banale.

 

D. – Quali sono le caratteristiche del lacanismo ?

 

R. – È un po’ presto per dirlo, dal momento che ancora il lacanismo non esiste. Se ne sente appena l’odore, come un presentimento.

Lacan, comunque, è un signore che pratica da almeno 40 anni la psicoanalisi, e che da altrettanti anni la studia. Credo nello strutturalismo e nella scienza del linguaggio. Ho scritto in un mio libro che « ciò cui ci riconduce la scoperta di Freud è l’enormità dell’ordine in cui siamo entrati, cui siamo, se così si può dire, nati una seconda volta, uscendo dallo stato giustamente chiamato infans, senza parola ».

L’ordine simbolico su cui Freud ha fondato la sua scoperta è costituito dal linguaggio, come momento del discorso universale concreto. È il mondo delle parole che crea il mondo delle cose, inizialmente confuse nel tutto in divenire. Solo le parole danno il senso compiuto all’essenza delle cose. Senza le parole non esisterebbe nulla. Che cosa sarebbe il piacere, senza l’intermediario della parola ?

La mia idea è che Freud, enunciando nelle sue prime opere (L’interpretazione dei sogni, Al di là del principio del piacere, Totem e tabù) le leggi dell’Inconscio, ha formulato precorrendo i tempi, le teorie con cui qualche anno più tardi Ferdinand de Saussure avrebbe aperto la strada alla linguistica moderna.

 

D. – E il pensiero puro ?

 

R. – Sottomesso, come tutto il resto, alle leggi del linguaggio. Solo le parole possono introdurlo e dargli consistenza. Senza il linguaggio, l’umanità non farebbe un passo avanti nelle ricerche del pensiero. Così la psicoanalisi. Qualunque funzione le si voglia attribuire, agente di guarigione, di formazione, o di sondaggio, uno solo è il medium di cui si serve : la parola del paziente. E ogni parola chiama risposta.

 

D. – L’analisi come dialogo, dunque. C’è gente che la interpreta piuttosto come un succedaneo laico della confessione…

 

R. – Macché confessione. Allo psicoanalista non si confessa un bel niente. Si va a dirgli, semplicemente, tutto quello che passa per la testa. Parole, appunto.

La scoperta della psicoanalisi è l’uomo come animale parlante. Sta all’analista mettere in fila le parole che ascolta e dargli un senso, un significato. Per fare una buona analisi ci vuole accordo, affiatamento fra analizzante e analista.

Attraverso le parole dell’uno, l’altro cerca di farsi un idea di che cosa si tratta, e di trovare al di là del sintomo apparente il difficile nodo della verità. Altra funzione dell’analista è spiegare il senso delle parole, per far capire al paziente che cosa può aspettarsi dall’analisi.

 

D. – È un rapporto di estrema fiducia..

 

R. – Piuttosto uno scambio. In cui l’importante è che uno parli e l’altro ascolti. Anche in silenzio. L’analista non fa domande e non ha idee. Dà solo le risposte che ha voglia di dare, alle domande che suscitano questa voglia. Ma alla fine l’analizzante va sempre dove l’analista lo porta.

 

D. – Questa la cura. E le possibilità di guarigione ? Dalla nevrosi si esce ?

 

R. – La psicoanalisi riesce quando sbarazza il campo sia dal sintomo sia dal reale. Cioè arriva alla verità.

 

D. – Si può spiegare lo stesso concetto in modo meno lacaniano ?

 

R. – Io chiamo sintomo tutto quello che viene dal reale. E il reale è tutto quello che non va, che non funziona, che ostacola la vita dell’uomo e l’affermazione della sua personalità. Il reale torna sempre allo stesso posto, lo trovi sempre lì, con le stesse sembianze. Gli scienziati hanno un bel dire che niente è impossibile nel reale. Ci vuole molta faccia tosta per affermazioni del genere. Oppure, come io sospetto, la totale ignoranza di ciò che si fa e si dice.

Reale e impossibile sono antitetici, non possono andare insieme. L’analisi spinge il soggetto verso l’impossibile, gli suggerisce di considerare il mondo com’è veramente, cioè immaginario, senza senso. Mentre il reale, come un uccello vorace, non fa che nutrirsi di cose sensate, di azioni che hanno un senso.

Ci si sente sempre ripetere che bisogna dare un senso a questo e a quello, ai propri pensieri, alle proprie aspirazioni, ai desideri, al sesso, alla vita. Ma della vita non sappiamo niente di niente, come si affannano a spiegarci gli scienziati.

La mia paura è che, per colpa loro, il reale, cosa mostruosa che non esiste, finirà per prendere il sopravvento. La scienza si sta sostituendo alla religione, altrettanto dispotica, ottusa e oscurantista. C’è un dio atomo, un dio spazio, eccetera. Se vince la scienza, o la religione, la psicoanalisi è finita.

 

D. – Oggi, che rapporto c’è fra scienza e psicoanalisi ?

 

R. – Per me l’unica scienza vera, seria, da seguire, è la fantascienza. L’altra, quella ufficiale, che ha i suoi altari nei laboratori, va avanti a tentoni, senza meta. E comincia persino ad aver paura della propria ombra.

Sembra che stia arrivando anche per gli scienziati il momento dell’angoscia. Nei loro laboratori asettici, avvolti nei loro camici inamidati, questi vecchi bambini che giocano con cose sconosciute, maneggiando apparecchi sempre più complicati e inventando formule sempre più astruse, cominciano a domandarsi che cosa può accadere domani, a che cosa finiranno per portare queste sempre nuove ricerche. Finalmente, dico io. E se fosse troppo tardi ? Biologi li chiamano, o fisici, chimici. Per me sono dementi.

Solo adesso, quando già stanno per sfasciare l’universo, gli viene in mente di chiedersi se per caso non può essere pericoloso. E se salta tutto ? Se i batteri così amorosamente allevati nei bianchi laboratori si tramutassero in nemici mortali ? Se il mondo fosse spazzato via da un orda di questi batteri, con tutta la cosa merdosa che lo abita, a cominciare dagli scienziati dei laboratori ?

Alle tre posizioni impossibili di Freud, governo educazione psicoanalisi, io aggiungerei, quarta, la scienza. Solo che loro, gli scienziati, non lo sanno di stare in una posizione insostenibile.

 

D. – Una visione abbastanza pessimistica di quello che comunemente si definisce progresso.

 

R. – No, tutt’altro. Io non sono pessimista. Non succederà niente. Per il semplice fatto che l’uomo è un buono a nulla, nemmeno capace di distruggersi. Personalmente, un flagello totale promosso dall’uomo lo troverei meraviglioso. La prova che finalmente è riuscito a combinare qualche cosa, con le sue mani, la sua testa, senza interventi divini, naturali, o altro.

Tutti quei bei batteri supernutriti a spasso per il mondo come le cavallette bibliche significherebbero il trionfo dell’uomo. Ma non succederà. La scienza ha la sua brava crisi di responsabilità. Tutto rientrerà nell’ordine della cose, come si dice. L’ho detto : il reale avrà il sopravvento, come sempre. E noi saremo, come sempre, fottuti.

 

D. – Un altro dei paradossi di Jacques Lacan. Le si rimproverano, oltre la difficoltà del linguaggio e l’oscurità dei concetti, i giochi di parole, gli scherzi linguistici, i calembours alla francese, e, appunto, i paradossi. Chi ascolta, o legge, ha diritto di sentirsi disorientato.

 

R. – Io non scherzo affatto, dico cose serissime. Solo uso le parole come gli scienziati di cui sopra i loro alambicchi e i loro aggeggi elettronici. Cerco di riportarmi sempre all’esperienza della psicoanalisi.

 

D. – Lei dice : il reale non esiste. Ma l’uomo medio sa che reale è il monde, tutto quello che la circonda, che si vede a occhio nudo, si tocca, c’è…

 

R. – Intanto buttiamo questo uomo medio che, lui per primo, non esiste. È soltanto una finzione statistica. Esistono gli individui, e basta. Quando sento parlare di uomo della strada, di inchieste Doxa, di fenomeni di massa e simili penso a tutti i pazienti che ho visto passare sul divano del mio studio in 40 anni di ascolto. Non uno in qualche modo simile all’altro, non uno con le stesse fobie, le stesse angosce, lo stesso modo di raccontare, la stessa paura di non capire. L’uomo medio, chi è : io, lei, il mio portiere, il presidente della Repubblica ?

 

D. – Parlavamo del reale, del mondo che tutti vediamo…

 

R. – Appunto. La differenza fra il reale, cioè quello che non va, e il simbolico, l’immaginario, cioè la verita, è che il reale è il mondo. Per constatare che il mondo non esiste, non c’è, basta pensare a tutte le cose banali che un’infinità di stupidi credono essere il mondo. E invito gli amici di Panorama, prima di accusarmi di paradosso, a riflettere bene su quanto hanno appena letto.

 

D. – Sempre più pessimista, si direbbe…

 

R. – Non è vero. Non mi metto né fra gli allarmisti né fra gli angosciati. Guai se uno psicoanalista non ha superato il suo stadio di angoscia. È vero, ci sono intorno a noi cose orripilanti e divoranti, come la televisione dalla quale gran parte di noi viene regolarmente fagocitata. Ma soltanto perché è gente che si lascia fagocitare, s’inventa persino un interesse per quello che vede.

Poi ci sono altri aggeggi mostruosi altrettanto divoranti : i razzi che vanno sulla luna, le ricerche in fondo al mare, eccetera. Tutte cose che divorano. Ma non c’è da fare drammi. Sono sicuro che quando ne avremo abbastanza, dei razzi, della televisione e di tutte le loro maledette ricerche a vuoto, troveremo altro di cui occuparci. C’è una reviviscenza della religione, no ? E quale miglior mostro divorante della religione, una fiera continua, di che divertirsi per secoli come è già stato dimostrato ?

La mia risposta a tutto questo è che l’uomo ha sempre saputo adattarsi al male. Il solo reale concepibile, al quale abbiamo accesso è appunto questo, bisognerà farsene una ragione. Dare un senso alle cose, come si diceva. Altrimenti l’uomo non avrebbe angosce, Freud non sarebbe diventato famoso, e io farei il professore di scuola media.

 

D. – Le angosce : sono sempre dello stesso tipo o ci sono angosce legate a certe condizioni sociali, a certe epoche storiche, a certe latitudini ?

 

R. – L’angoscia dello scienziato che ha paura delle sue scoperte può sembrare recente. Ma cosa ne sappiamo di quello che è accaduto in altri tempi ? Dei drammi di altri ricercatori ? L’angoscia dell’operaio costretto alla catena di montaggio come a un remo di galera è angoscia di oggi. O più semplicemente è legata a definizioni e parole di oggi ?

 

D. – Ma che cos’è, per la psicoanalisi, l’angoscia ?

 

R. – Qualcosa che si situa al di fuori del nostro corpo, una paura, ma di niente che il corpo, mente compresa, possa motivare. Insomma, la paura della paura. Molte di queste paure, molte di queste angosce, al livello in cui le percepiamo, hanno a che fare con il sesso.

Freud diceva che la sessualità, per l’animale parlante che si chiama uomo, è senza rimedio e senza speranza. Uno dei compiti dell’analista è trovare, nelle parole del paziente, il nesso fra l’angoscia e il sesso, questo grande sconosciuto.

 

D. – Adesso che si distribuisce sesso a tutti gli angoli, sesso al cinema, sesso a teatro, in televisione, nei giornali, nelle canzoni, sulle spiagge, si sente dire che la gente è meno angosciata da problemi legati alla sfera sessuale. Sono caduti i tabù, si dice, il sesso non fa più paura…

 

R – La sessomania dilagante è solo un fenomeno pubblicitario. La psicoanalisi è una cosa seria, che riguarda, ripeto, un rapporto strettamente personale fra due individui : il soggetto e l’analista. Non esiste psicoanalisi collettiva, come non esistono angosce e nevrosi di massa.

Che il sesso sia messo all’ordine del giorno ed esposto agli angoli della strada, trattato alla pari di un qualunque detersivo nei caroselli televisivi, non costituisce affatto una promessa di qualche beneficio. Non dico che sia male. Certo non serve a curare le angosce e i problemi singoli. Fa parte della moda, di questa finta liberalizzazione che ci viene fornita, come un bene concesso dall’alto, dalla cosiddetta società permissiva. Ma non serve, a livello di psicoanalisi.

 

Intervista a cura di Emilia Granzotto


Traduction :

Freud pour toujours

entretien avec J. Lacan

 

Le malaise de la civilisation moderne. La difficulté de vivre. La peur et le sexe. La parole comme traitement de la névrose. L’angoisse des scientifiques. Le psychanalyste vivant le plus paradoxal expose sa doctrine et les raisons de sa fidélité au maître.

 

Jacques Lacan, 73 ans, parisien, psychanalyste. Apôtre de Sigmund Freud. Il se définit comme un « pur freudien » et il a fondé à Paris une école freudienne qui repropose infatigablement depuis vingt ans le retour aux doctrines du maître et sa relecture « au sens littéral ». Il est considéré comme hérétique de la psychanalyse officielle qui l’accuse d’histrionisme (Emilio Servadio, président du Centro psicoanalitico de Rome, l’a défini comme « prophète d’opérette ») et l’a chassé de ses institutions et sociétés.

Il est vénéré comme un dieu par ses partisans, pour lesquels il est « un génie qui communique par flashes ». Politiquement à gauche, proche du groupe marxiste maoïste qui dirige la revue Tel quel. Père spirituel, a-t-on dit, de tous les gauchistes français. C’est également un personnage légendaire par le ton d’oracle avec lequel il déplie ses écrits, incompréhensibles pour quiconque n’est pas largement ferré par les mystères de la psychanalyse, définie, dans l’un de ses essais, « comme rien d’autre qu’un artifice dont Freud a donné les constituants en posant que leur ensemble englobe la notion de tels constituants ».

Ses conférences et leçons du mercredi à la Faculté de droit de la Sorbonne sont suivies par une multitude d’auditeurs, malgré le langage parlé aussi obscur que fumeux de cet écrit. Il dit lui-même : « Je parle à demi-mot, c’est connu. Et à la fin personne n’y comprend rien ».

Il mêle des mots très savants (homéostasie, anamorphose, aphanisis) aux néologismes qu’il invente à brûle-pourpoint (le plus célèbre est parlêtre, soit l’être parlant, soit l’homme). Il utilise indifféremment des termes de jargon ou carrément des euphémismes débonnaires à la limite du ridicule ; le phallus, protagoniste et dieu féroce de la religion psychanalytique, devient simplement et ironiquement dans le langage de Lacan, quéquette.

Petit, les cheveux gris coupés en brosse et toujours soigneusement coiffés, une vague ressemblance qui ne lui déplaît pas à Jean Gabin, ce monstre sacré de la culture française s’habille toujours comme un dandy : chemise blanche en tissu brodé, fermée au col d’une bande boutonnée comme celle des prêtres, vestes de velours couleur prune ou abricot dont le tissage mêle le brillant et le mat.

Dans son cabinet du 5 rue de Lille, avec son canapé empire, Lacan reçoit le Tout-Paris qui compte. Lacan se proclame structuraliste, il est convaincu que linguistique et psychanalyse sont sœurs, et que les analystes « devraient avoir une culture sociologique, linguistique et métaphysique ». Ses essais sont rassemblés dans un volume qui s’intitule Écrits, vendu à des dizaines de milliers d’exemplaires.

Panorama a demandé à Lacan de parler de la psychanalyse, de ses méthodes, dans la technique et la doctrine.

 

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Question – Pr. Lacan, on entend de plus en plus souvent parler de la crise de la psychanalyse : on dit que Sigmund Freud est dépassé, la société moderne a découvert que sa doctrine ne suffit plus à comprendre l’homme ni à interpréter à fond son rapport avec l’environnement, avec le monde…

 

Lacan – Ce sont des histoires. D’abord : la crise, il n’y en a pas. Elle n’est pas là, la psychanalyse n’a pas du tout atteint ses limites, au contraire. Il y a encore beaucoup de choses à découvrir dans la pratique et dans la doctrine. En psychanalyse il n’y a pas de solution immédiate, mais seulement la longue, patiente recherche des pourquoi.

Deuxièmement : Freud. Comment peut-on le juger dépassé si nous ne l’avons pas entièrement compris ? Ce que nous savons c’est qu’il a fait connaître des choses tout à fait nouvelles que l’on n’avait jamais imaginées avant lui, des problèmes… de l’inconscient jusqu’à l’importance de la sexualité, de l’accès au symbolique à l’assujettissement aux lois du langage.

Sa doctrine a mis en question la vérité, une affaire qui regarde tout un chacun, personnellement. Rien à voir avec une crise. Je répète : on est loin des objectifs de Freud. C’est aussi parce que son nom a servi à couvrir beaucoup de choses qu’il y a eu des déviations, les épigones n’ont pas toujours fidèlement suivi le modèle, ça a créé la confusion.

Après sa mort, en 39, même certains de ses élèves ont prétendu faire la psychanalyse autrement, réduisant son enseignement à quelques petites formules banales : la technique comme rite, la pratique réduite au traitement du comportement et, comme visée, la réadaptation de l’individu à son environnement social. C’est-à-dire la négation de Freud, une psychanalyse arrangeante, de salon.

Il l’avait prévu. Il disait qu’il y a trois positions impossibles à soutenir, trois engagements impossibles, gouverner, éduquer et psychanalyser. Aujourd’hui peu importe qui a des responsabilités au gouvernement, et tout le monde se prétend éducateur. Quant aux psychanalystes, hélas, ils prospèrent comme les magiciens et les guérisseurs. Proposer aux gens de les aider signifie le succès assuré et la clientèle derrière la porte. La psychanalyse c’est autre chose.

 

Q. – Quoi exactement ?

 

L – Je la définis comme un symptôme, révélateur du malaise de la civilisation dans laquelle nous vivons. Ce n’est certes pas une philosophie, j’abhorre la philosophie, il y a bien longtemps qu’elle ne dit plus rien d’intéressant. Ce n’est même pas une foi, et ça ne me va pas de l’appeler science. Disons que c’est une pratique qui s’occupe de ce qui ne va pas, terriblement difficile parce qu’elle prétend introduire dans la vie quotidienne l’impossible et l’imaginaire. Jusqu’à maintenant, elle a obtenu certains résultats, mais elle n’a pas encore de règles et elle se prête à toutes sortes d’équivoques.

Il ne faut pas oublier qu’il s’agit de quelque chose de tout à fait nouveau, que ce soit par rapport à la médecine, ou à la psychologie ou aux sciences affines. Elle est aussi très jeune. Freud est mort il y a à peine 35 ans. Son premier livre L’Interprétation des rêves a été publié en 1900, et avec très peu de succès. Je crois qu’il en a été vendu 300 exemplaires en quelques années. Il avait aussi très peu d’élèves, qui passaient pour des fous, et eux-mêmes n’étaient pas d’accord sur la façon de mettre en pratique et d’interpréter ce qu’ils avaient appris.

 

Q. – Qu’est-ce qui ne va pas aujourd’hui chez l’homme ?

 

L. – Il y a cette grande fatigue de vivre comme résultat de la course au progrès. On attend de la psychanalyse qu’elle découvre jusqu’où on peut aller en traînant cette fatigue, ce malaise de la vie.

 

Q. – Qu’est-ce qui pousse les gens à se faire psychanalyser ?

 

L. – La peur. Quand il lui arrive des choses, même des choses qu’il a voulues, qu’il ne comprend pas, l’homme a peur. Il souffre de ne pas comprendre et petit à petit il entre dans un état de panique, c’est la névrose. Dans la névrose hystérique le corps devient malade de la peur d’être malade, sans l’être en réalité. Dans la névrose obsessionnelle la peur met des choses bizarres dans la tête… pensées qu’on ne peut pas contrôler, phobies dans lesquelles formes et objets acquièrent des significations diverses et effrayantes.

 

Q. – Par exemple ?

 

L.– Il arrive au névrosé de se sentir poussé par un besoin épouvantable d’aller vérifier des dizaines de fois si le robinet est vraiment fermé ou si telle chose est bien à sa place, tout en sachant avec certitude que le robinet est comme il doit être et que la chose est bien à sa place. Il n’y a pas de pilule qui guérisse cela. Tu dois découvrir pourquoi cela t’arrive et savoir ce que cela signifie.

 

Q. – Et le traitement ?

 

L. – Le névrosé est un malade qui se traite avec la parole, avant tout avec la sienne. Il doit parler, raconter, expliquer lui-même. Freud la définit ainsi : « assomption de la part du sujet de sa propre histoire, dans la mesure où elle est constituée par la parole adressée à un autre ».

La psychanalyse est le règne de la parole, il n’y a pas d’autre remède. Freud expliquait que l’inconscient, ce n’est pas tant profond mais plutôt qu’il est inaccessible à l’approfondissement conscient. Et il disait aussi que dans cet inconscient « ça parle » : un sujet dans le sujet, transcendant le sujet. La parole est la grande force de la psychanalyse.

 

Q. – Parole de qui ? du malade ou du psychanalyste ?

 

L. – En psychanalyse, les termes malade, médecin, médecine, ne sont pas exacts, ils ne sont pas utilisés. Même les formules passives qui sont utilisées habituellement ne sont pas justes. On dit « se faire psychanalyser ». C’est faux. Celui qui fait le vrai travail en analyse c’est celui qui parle, le sujet analysant, même s’il le fait sur le mode suggéré par l’analyste qui lui indique comment procéder et l’aide par des interventions. Des interprétations lui sont fournies qui semblent au premier abord donner sens à ce que l’analysant dit.

En réalité l’interprétation est plus subtile, elle tend à effacer le sens des choses dont le sujet souffre. Le but est de lui montrer à travers son propre récit que son symptôme, disons la maladie, n’est en relation avec rien, qu’il est dénué de tout sens. Même si en apparence il est réel, il n’existe pas.

Les voies par lesquelles cette action de la parole procède demandent une grande pratique et une patience infinie. La patience et la mesure sont les instruments de la psychanalyse. La technique consiste à savoir mesurer l’aide qu’on donne à l’analysant ; c’est pour ça que la psychanalyse est difficile.

 

Q. – Quand on parle de Jacques Lacan, on associe inévitablement ce nom à une formule : « le retour à Freud ». Qu’est-ce que cela signifie ?

 

L. – Exactement ce qui est dit. La psychanalyse c’est Freud. Si on veut faire de la psychanalyse, il faut se référer à Freud, à ses termes, à ses définitions, lus et interprétés dans leur sens littéral. J’ai fondé à Paris une école freudienne justement pour ça.

Ça fait 20 ans et plus que je vais en expliquant mon point de vue : le retour à Freud signifie simplement désencombrer le champ des déviations et des équivoques, des phénoménologies existentielles par exemple comme du formalisme institutionnel des sociétés psychanalytiques, en reprenant la lecture de son enseignement selon les principes définis et catalogués dans son travail. Relire Freud veut dire seulement relire Freud. Celui qui ne fait pas cela en psychanalyse utilise des formes abusives.

 

Q. – Mais Freud est difficile. Et Lacan dit-on le rend incompréhensible. On reproche à Lacan de parler, et surtout d’écrire, de telle façon que seuls quelques initiés puissent espérer comprendre.

 

L.– Je le sais, j’ai la réputation d’être un obscur qui cache sa pensée dans des nuages de fumée. Je me demande pourquoi. À propos de l’analyse, je répète avec Freud qu’elle est « le jeu intersubjectif à travers lequel la vérité entre dans le réel ». C’est pas clair ? Mais la psychanalyse n’est pas une chose simple.

Mes livres sont réputés incompréhensibles. Mais par qui ? Je ne les ai pas écrits pour tous, pour qu’ils soient compris par tous. Au contraire, je ne me suis pas préoccupé un instant de complaire à quelques lecteurs. J’avais des choses à dire et je les ai dites. Il me suffit d’avoir un public qui lit, s’il ne comprend pas tant pis. Quant au nombre de lecteurs, j’ai eu plus de chance que Freud. Mes livres sont même trop lus, j’en suis étonné.

Je suis même convaincu que dans 10 ans au maximum, qui me lira me trouvera transparent comme un beau verre de bière. Peut-être qu’alors on dira : ce Lacan qu’il est banal !

 

Q. – Quelles sont les caractéristiques du lacanisme ?

 

L. – C’est un peu tôt pour le dire puisque le lacanisme n’existe pas encore. On en perçoit à peine l’odeur, comme un pressentiment.

Quoi qu’il en soit, Lacan est un monsieur qui pratique depuis 40 ans la psychanalyse et qui l’étudie depuis autant de temps. Je crois dans le structuralisme et dans la science du langage. J’ai écrit dans un de mes livres que « ce à quoi nous ramène la découverte de Freud est l’importance de l’ordre dans lequel nous sommes entrés, dans lequel nous sommes, si l’on peut dire, nés une seconde fois, sortant de l’état appelé justement infans, sans parole ».

L’ordre symbolique sur lequel Freud a fondé sa découverte est constitué par le langage, comme moment du discours universel concret. C’est le monde des paroles qui crée le monde des choses, initialement confuses dans le tout en devenir. Seuls les mots donnent un sens accompli à l’essence des choses. Sans les mots rien n’existerait. Que serait le plaisir sans l’intermédiaire de la parole ?

Mon idée est que Freud en énonçant dans ses premières œuvres (L’Interprétation des rêves, Au-delà du principe de plaisir, Totem et tabou) les lois de l’inconscient a formulé, en précurseur des temps, les théories avec lesquelles quelques années plus tard Ferdinand de Saussure a ouvert le chemin à la linguistique moderne.

 

Q. – Et la pensée pure ?

 

L. – Soumise, comme tout le reste, aux lois du langage, seuls les mots peuvent l’introduire et lui donner consistance. Sans le langage, l’humanité ne ferait pas un pas en avant dans les recherches sur la pensée. Ainsi la psychanalyse. Quelle que soit la fonction qu’on veuille lui attribuer, agent de guérison, de formation ou de sondage, il n’y a qu’un médium dont on se serve : la parole du patient. Et chaque mot demande réponse.

 

Q. – L’analyse comme dialogue donc ? Il y a des gens qui l’interprètent plutôt comme un succédané laïc de la confession…

 

L. – Mais quelle confession. Au psychanalyste on ne confesse rien du tout. On va lui dire simplement tout ce qui nous passe par la tête. Des mots précisément.

La découverte de la psychanalyse, c’est l’homme comme animal parlant. C’est à l’analyste de mettre en série les mots qu’il écoute et de leur donner un sens, une signification. Pour faire une bonne analyse, il faut un accord, une affinité entre l’analysant et l’analyste.

À travers les mots de l’un, l’autre cherche à se faire une idée de ce dont il s’agit, et à trouver au-delà du symptôme apparent le nœud difficile de la vérité. Une autre fonction de l’analyste est d’expliquer le sens des mots pour faire comprendre au patient ce qu’il peut attendre de l’analyse.

 

Q. – C’est un rapport d’une extrême confiance.

 

L. – Plutôt un échange. Dans lequel l’important est que l’un parle et l’autre écoute. Même en silence. L’analyste ne pose pas de question et n’a pas d’idée. Il donne seulement les réponses qu’il veut bien donner aux questions qui suscitent son bon vouloir. Mais en fin de compte l’analysant va toujours où l’analyste l’emmène.

 

Q. – C’est la cure. Et les possibilités de guérison ? Est-ce qu’on sort de la névrose ?

 

L. – La psychanalyse réussit quand elle débarrasse le champ aussi bien du symptôme que du réel, ainsi elle arrive à la vérité.

 

Q. – Est-ce qu’on peut expliquer ce concept d’une manière moins lacanienne ?

 

L. – J’appelle symptôme tout ce qui vient du réel. Et le réel c’est tout ce qui ne va pas, ce qui ne fonctionne pas, ce qui fait obstacle à la vie de l’homme et à l’affirmation de sa personnalité. Le réel revient toujours à la même place, on le trouve toujours là avec les mêmes manifestations. Les scientifiques ont une belle formule : qu’il n’y a rien d’impossible dans le réel. Il faut un sacré culot pour des affirmations de ce genre, ou bien comme je le soupçonne, l’ignorance totale de ce qu’on fait et de ce qu’on dit.

Le réel et l’impossible sont antithétiques ; ils ne peuvent aller ensemble. L’analyse pousse le sujet vers l’impossible, elle lui suggère de considérer le monde comme il est vraiment, c’est-à-dire imaginaire et sans aucun sens. Alors que le réel, comme un oiseau vorace, ne fait que se nourrir de choses sensées, d’actions qui ont un sens.

On entend toujours répéter qu’il faut donner un sens à ceci et à cela, à ses propres pensées, à ses propres aspirations, aux désirs, au sexe, à la vie. Mais de la vie nous ne savons rien de rien, comme s’essoufflent à l’expliquer les scientifiques.

Ma peur est que par leur faute, le réel, chose monstrueuse qui n’existe pas, finira par prendre le dessus. La science est en train de se substituer à la religion, avec autant de despotisme, d’obscurité et d’obscurantisme. Il y a un dieu atome, un dieu espace, etc. Si la science ou la religion l’emportent, la psychanalyse est finie.

 

Q. – Quel rapport y a-t-il aujourd’hui entre la science et la psychanalyse ?

 

L. – Pour moi l’unique science vraie, sérieuse, à suivre, c’est la science fiction. L’autre, celle qui est officielle, qui a ses autels dans les laboratoires avance à tâtons sans but et elle commence même à avoir peur de son ombre.

Il semble que soit arrivé aussi pour les scientifiques le moment de l’angoisse. Dans leurs laboratoires aseptisés, revêtus de leurs blouses amidonnées, ces vieux enfants qui jouent avec des choses inconnues, manipulant des appareils toujours plus compliqués, et inventant des formules toujours plus abstruses, commencent à se demander ce qui pourra survenir demain et ce que finiront par apporter ces recherches toujours nouvelles. Enfin, dirai-je, et si c’était trop tard ? On les appelle biologistes, physiciens, chimistes, pour moi ce sont des fous.

Seulement maintenant, alors qu’ils sont déjà en train de détruire l’univers, leur vient à l’esprit de se demander si par hasard ça ne pourrait pas être dangereux. Et si tout sautait ? Si les bactéries aussi amoureusement élevées dans les blancs laboratoires se transmutaient en ennemis mortels ? Si le monde était balayé par une horde de ces bactéries avec toute la chose merdeuse qui l’habite, à commencer par les scientifiques des laboratoires ?

Aux trois positions impossibles de Freud, gouverner, éduquer, psychanalyser, j’en ajouterais une quatrième : la science. À ceci près que eux, les scientifiques, ne savent pas qu’ils sont dans une position insoutenable.

 

Q. – C’est une vision assez pessimiste de ce qui communément se définit comme le progrès.

 

L. – Pas du tout, je ne suis pas pessimiste. Il n’arrivera rien. Pour la simple raison que l’homme est un bon à rien, même pas capable de se détruire. Une calamité totale promue par l’homme, personnellement je trouverais ça merveilleux. La preuve qu’il aurait finalement réussi à fabriquer quelque chose avec ses mains, avec sa tête, sans intervention divine ou naturelle ou autre.

Toutes ces belles bactéries bien nourries se baladant dans le monde, comme les sauterelles bibliques, signifieraient le triomphe de l’homme. Mais ça n’arrivera pas. La science a sa bonne crise de responsabilité. Tout rentrera dans l’ordre des choses, comme on dit. Je l’ai dit, le réel aura le dessus comme toujours, et nous serons foutus comme toujours.

 

Q. – Un autre des paradoxes de Jacques Lacan. On lui reproche non seulement la difficulté du langage et l’obscurité des concepts, les jeux de mots, les plaisanteries linguistiques, les calembours à la française, et précisément les paradoxes. Celui qui écoute ou qui lit a le droit de se sentir désorienté.

 

L. – Je ne plaisante pas du tout, je dis des choses très sérieuses. Sauf que j’utilise les mots comme les scientifiques, dont nous parlions plus haut, utilisent leurs alambics et leurs gadgets électroniques. Je cherche toujours à me reporter à l’expérience de la psychanalyse.

 

Q. – Vous dites : le réel n’existe pas. Mais l’homme moyen sait que le réel c’est le monde, tout ce qui l’entoure, ce qui se voit à l’œil nu, se touche, c’est…

 

L. – D’abord rejetons cet homme moyen qui, lui, pour commencer n’existe pas, c’est seulement une fiction statistique, il existe des individus et c’est tout. Quand j’entends parler de l’homme de la rue, de sondages, de phénomènes de masse ou de choses semblables, je pense à tous les patients que j’ai vu passer sur le divan de mon cabinet en quarante années d’écoute. Il n’y en a pas un qui soit de quelque façon semblable à l’autre, pas un avec les mêmes phobies, les mêmes angoisses, la même façon de raconter, la même peur de ne pas comprendre. L’homme moyen qui est-ce, moi, vous, mon concierge, le président de la République ?

 

Q. – Nous parlions du réel, du monde que nous tous voyons…

 

L. – Précisément. La différence entre le réel, à savoir ce qui ne va pas, et le symbolique et l’imaginaire, à savoir la vérité, c’est que le réel c’est le monde. Pour constater que le monde n’existe pas, qu’il n’est pas, il suffit de penser à toutes les choses banales qu’une infinité de gens stupides croient être le monde. Et j’invite les amis de Panorama, avant de m’accuser de paradoxe, à bien réfléchir sur ce qu’ils viennent de lire.

 

Q. – Toujours plus pessimiste on dirait…

 

L. – Ce n’est pas vrai. Je ne me range pas parmi les alarmistes ni parmi les angoissés. Gare si un psychanalyste n’a pas dépassé son stade de l’angoisse. C’est vrai, il y a autour de nous des choses horripilantes et dévorantes, comme la télévision, par quoi la plus grande partie d’entre nous se trouve régulièrement phagocytée. Mais c’est seulement parce que des gens se laissent phagocyter, qu’ils vont jusqu’à s’inventer un intérêt pour ce qu’ils voient.

Puis, il y a d’autres gadgets monstrueux aussi dévorants, les fusées qui vont sur la lune, les recherches au fond de la mer, etc., toutes choses qui dévorent, mais il n’y a pas de quoi en faire un drame. Je suis sûr que quand nous en aurons assez des fusées, de la télévision et de toutes leurs maudites recherches à vide, nous trouverons d’autres choses pour nous occuper. Il y a une reviviscence de la religion, non ? Et quel meilleur monstre dévorant que la religion, une foire continuelle, de quoi s’amuser pendant des siècles comme ça a déjà été démontré ?

Ma réponse à tout cela c’est que l’homme a toujours su s’adapter au mal. Le seul réel concevable auquel nous ayons accès est précisément celui-ci, il faudra s’en faire une raison. Donner un sens aux choses comme on disait. Autrement l’homme n’aurait pas d’angoisse. Freud ne serait pas devenu célèbre et moi je serais professeur de collège.

 

Q. – Les angoisses : sont-elles toujours de ce type ou bien y a-t-il des angoisses liées à certaines conditions sociales, à certaines étapes historiques, à certaines latitudes ?

 

L. – L’angoisse du scientifique qui a peur de ses propres découvertes peut sembler récente, mais que savons-nous de ce qui est arrivé à d’autres époques, des drames d’autres chercheurs ? L’angoisse de l’ouvrier rivé à la chaîne de montage comme à la rame d’une galère, c’est l’angoisse d’aujourd’hui. Ou plus simplement elle est liée aux définitions et aux mots d’aujourd’hui ?

 

Q. – Mais qu’est-ce que c’est l’angoisse pour la psychanalyse ?

 

L. – Quelque chose qui se situe à l’extérieur de notre corps, une peur, une peur de rien que le corps, esprit compris, puisse motiver. En somme, la peur de la peur. Beaucoup de ces peurs, beaucoup de ces angoisses, au niveau où nous les percevons, ont quelque chose à faire avec le sexe.

Freud disait que la sexualité, pour l’animal parlant qu’on appelle l’homme, est sans remède et sans espoir. Un des devoirs de l’analyste est de trouver dans les paroles du patient le nœud entre l’angoisse et le sexe, ce grand inconnu.

 

Q. – Maintenant qu’on met du sexe à toutes les sauces, sexe au cinéma, sexe au théâtre, à la télévision, dans les journaux, dans les chansons, à la plage, on entend dire que les gens sont moins angoissés concernant les problèmes liés à la sphère sexuelle. Les tabous sont tombés, dit-on, le sexe ne fait plus peur…

 

L. – La sexomanie galopante est seulement un phénomène publicitaire. La psychanalyse est une chose sérieuse qui regarde, je répète, un rapport strictement personnel entre deux individus : le sujet et l’analyste. Il n’existe pas de psychanalyse collective, comme il n’existe pas d’angoisses ou de névroses de masse.

Que le sexe soit mis à l’ordre du jour et exposé à tous les coins de rue, traité de la même façon que n’importe quel détersif dans les carrousels télévisés, ne constitue absolument pas une promesse d’un quelconque bénéfice. Je ne dis pas que ce soit mal. Certes, ça ne sert pas à soigner les angoisses et les problèmes singuliers. Ça fait partie de la mode, de cette fausse libéralisation qui nous est fournie comme un bien accordé d’en haut par la soi disant société permissive. Mais ça ne sert pas au niveau de la psychanalyse.